Un viaggio a Roma è molto più di una semplice esperienza.
Si tratta più che altro di un’immersione nell’antica grandezza della Città Eterna.
Il Colosseo – maestoso custode dei segreti dell’Impero Romano – che ti accoglie con la sua imponenza, Piazza di Spagna che ti incanta con la sua scalinata senza fine e la Fontana di Trevi che si erge come una danza di desideri e speranze che risuona nell’aria della Città Eterna.
Tuttavia, quando parliamo di Roma, non possiamo dimenticare un’offerta culinaria – ricca di tradizione e passione – che attende soltanto di deliziare il tuo palato.
Ecco dunque la tua guida emozionale ai 7 piatti che non dovresti perdere per nessun motivo al mondo durante il tuo viaggio a Roma…
Cosa mangiare nella Capitale?
Ora ti fornirò sette consigli inerenti sette piatti tipici della tradizione Romana, anche se qualcuno prova ad accaparrarsene la proprietà in maniera poco etica.
1) Carciofi alla giudìa e alla romana
Da non confondere con i carciofi alla romana, i carciofi alla giudia sono uno tra i piatti simboli della città capitolina. Fritti due volte nell’olio bollente e aperti come se fossero fiori appena sbocciati, i carciofi alla giudia sono famosi per la loro insuperabile croccantezza. Se vi state chiedendo dove mangiare i migliori carciofi alla giudia di Roma, sappiate che sono le osterie ad avere quelli migliori. State alla larga dunque dai ristoranti prestigiosi e da quelli turistici e addentratevi nelle viuzze per scovare le trattorie tradizionali, è qui che mangerete i carciofi fritti migliori della vostra vita. Ci sono diverse varietà di carciofi, ma i migliori per questa ricetta sono i classici carciofi romani, chiamati anche mammole. Pulite bene i carciofi e prima di passare alla frittura ricordate di metterli in acqua fredda acidulata per evitare che anneriscano, è a questo che serve il limone nei carciofi. Nel quartiere del ghetto, a Roma, non sarà difficile trovare ristoratori seduti fuori dai loro locali impegnati a pulire decine (se non centinaia) di carciofi. Ma come mai si chiamano carciofi alla giudia? Qual è la storia di questa antica ricetta che ha saputo resistere al tempo? Scopritelo qui sotto.
La cucina giudaico romana è molto conosciuta e apprezzata nella Capitale e ci sono ristoranti che la propongono in maniera tradizionale ma anche con qualche tocco di innovazione. La storia dei carciofi alla giudia è molto interessante, anche se il tempo ha cancellato qualche sfumatura e le testimonianze di questa ricetta sono piuttosto sbiadite. Il ghetto romano, in cui furono costrette le persone di religione ebraica, nacque intorno al 1555 poiché le restrizioni applicate non potevano più coincidere con la vita insieme a persone appartenente a religioni differenti. Molti ebrei arrivarono al ghetto da varie località come la Sicilia o addirittura la Spagna. Le culture gastronomiche si mischiavano e sempre nel rispetto della cucina kosher e grazie alla fusione di più tradizioni nacquero i carciofi alla giudia, che vennero chiamati così dai romani non residenti nel ghetto.
2) Spaghetti alla carbonara
Partendo dai ricettari storici, si può incontrare il primo esempio di associazione tra uovo e pasta ne “Il cuoco galante” del napoletano Vincenzo Corrado, stampato nel 1773, seguito dalla “Cucina teorica-pratica” del conterraneo Ippolito Cavalcanti.
In questi due casi l’uovo viene utilizzato unicamente come addensante per la pasta in brodo, le polpette di pasta fritte o i timballi di pasta, preparazioni molto lontane, non solo dalla carbonara, ma anche dalla concezione stessa di pastasciutta.
A compiere un deciso passo in avanti è invece Francesco Palma, un altro napoletano, che descrive ne “Il principe dei cuochi” del 1881 i Maccheroni con cacio e uova, in cui riunisce formaggio, uova e sugna, in un piatto di maccheroni.
L’utilizzo di lardo o guanciale come condimento per la pasta viene invece registrato dai ricettari solo molto più tardi.
Ricordiamo la ricetta degli Spaghetti al guancialepubblicata ne “Il piccolo talismano della felicità” di Ada Boni nel 1949.
Purtroppo in nessuna delle ricette è presente l’uovo per cui possono al massimo essere considerate i primi esempi di gricia, anche se questo nome gli sarà imposto solo molto tempo dopo.
E a proposito di nomi: quando si sente parlare per la prima volta di carbonara? Strano ma vero, il nome compare in un film.
3) Il Quinto quarto: rigatoni con la pajata e coda alla vaccinara
Si chiama quinto quarto perché è quello che rimane dell’animale dopo che sono state tolte le due parti anteriori e quelle posteriori.
I rigatoni con la pajata nascono come pietanza apprezzata dagli scortichini, i lavoranti dell’antico Mattatoio di Testaccio che, a fine giornata, ricevevano assieme ad una misera paga, il cosiddetto quinto quarto ovvero gli scarti delle carni macellate (interiora, zampe e lingua).
Con i loro sacchetti di carne, gli scortichini si recavano nelle vicine osterie della zona e chiedevano che gli scarti degli animali venissero utilizzati per preparare piatti sostanziosi per sfamare le famiglie.
Nacque così la pajata, piatto della tradizione popolare romana oggi apprezzato da gourmet e turisti che continuano a lasciarsi affascinare dai sapori decisi
4) Abbacchio alla scottadito (e fritto panato)
ra le pietanze più saporite e popolari della cucina romana, l’abbacchio a scottadito è il piatto delle feste e della stagione primaverile, secondo la tradizione capitolina e laziale.
Abbacchio è l’antico termine dialettale che indica l’agnello da latte, come scrive Chiappini, nella seconda metà dell’800, nel suo vocabolario romanesco: “si chiama abbacchio il figlio della pecora ancora lattante o da poco slattato”.
L’agnello è un piatto immancabile sulle tavole romane in occasione del pranzo pasquale, anche se in passato furono gli Ebrei i primi a preparare questo piatto durante la festività religiosa della Pesach, celebrata nel periodo della Pasqua cristiana.
Il termine “a scottadito” ha origine dall’usanza di mangiare queste deliziose costolette con le mani, scottandosi le dita, ma…leccandosi i baffi!
5) Il supplì al telefono
Buffo nome: deriva dal fatto che, una volta spezzati con le mani i supplì, la mozzarella (fior di latte) fila e si allunga, proprio come il filo di un telefono (quelli di una volta, naturalmente). Il supplì è una sorta di polpetta di riso allungata, con il riso bollito, condito con sugo di carne e poi fatto raffreddare. La panatura esterna è fondamentale per renderlo croccante e compatto. Attenzione a non confonderlo con l’arancino siciliano, per non suscitare l’ira dei romani: il riso è rosso, per il sugo, e contiene uova. Si trova nelle friggitorie o nei ristoranti come antipasto.
6) Il trapizzino
Lo ha inventato Stefano Callegari, nel suo locale di Testaccio 00100, ed è diventato subito un fenomeno. Un triangolo di pizza bianca romana aperto e traboccante di cucina romanesca: trippa, coratella, picchiapò, polpette al sugo, amatriciana, seppie con piselli, lingua. L’inventore ama definirlo “una scarpetta da asporto” e in effetti è il re dello street food moderno romano, con molti tentativi di imitazione. Dopo il locale di Testaccio, ribattezzato Trapizzino, ne sono nati molti altri in città (ma anche a Milano).
7) Crostata di visciole
Sembra che originariamente nel ‘700 un editto papale vietò agli ebrei di vendere latticini ai cristiani. Per ovviare a questa legge, i fornai del ghetto di Roma iniziarono a realizzare dolci “coperti”, per impedire alle guardie papali di poter vedere cosa ci fosse all’interno. Ecco quindi perché molti dolci a base di ricotta sono ancora oggi rivestiti da due gusci di pasta frolla. Successivamente, in particolare nel ‘900, tra i vicoli del ghetto romano, la storica pasticceria Boccione ha fatto della crostata di ricotta e visciole il suo biglietto da visita, continuando a mantenere la copertura di pasta frolla al posto della classica griglia. La ricetta, tramandata di generazione in generazione ai soli gestori del forno, è segreta, ma la sua fama è sparsa ormai in tutta la capitale al punto che non è inusuale trovare lunghe file di persone davanti alla porta, in attesa di gustare una delle sue specialità.
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